Spediti in Russia

I primi italiani arrivarono in Russia nel 1941. Con lo Csir, il corpo di spedizione italiano in Russia, poi inglobato dal'arrivo dell'Armir, l'Armata italiana in Russia. Fu l'inizio di una campagna di guerra che si trasformò in una débacle.

Un'immagine della ritirata
Un'immagine della ritirata

 

“Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don”. Così Mario Rigoni Stern inizia Il sergente nella neve, romanzo autobiografico sulla ritirata dell’Armata italiana in Russia (Armir) nell’inverno tra il 1942 e il ’43.
 

 

CHI MAL COMINCIA...
Che fosse una spedizione iniziata sotto i peggiori auspici c’era chi l’aveva capito fin dai primi giorni. Basta ascoltare le parole di Egidio, artigliere alpino di Treviso, classe 1921, inquadrato nella Divisione Julia, 3° Reggimento artiglieria da montagna. «Partimmo con la tradotta: passammo da Gorizia e poi, via Tarvisio, in Austria, Polonia e Ucraina. Ma lì ci dovemmo fermare: in Russia i binari avevano una larghezza diversa rispetto al resto d’Europa. Scendemmo e ci accampammo per la notte, noi e il migliaio di automezzi al seguito della “Julia”, parcheggiati in ordine, pronti a partire il giorno dopo. Non vi dico le bestemmie in quei momenti. Con tutta la strada ancora da fare e il treno fermo lì, cominciavamo bene». Prosegue: «Il giorno dopo, all’alba, ci preparammo a partire. Ma gli autisti, che erano stati i primi a salire sugli automezzi, avevano già scoperto che non si potevano nemmeno mettere in moto. Eravamo ancora in settembre ma durante la notte la temperatura si era abbassata a tal punto da far congelare i motori, dove nessuno si era preoccupato di mettere l’antigelo. Così, cambio di programma e via a piedi: marciammo per 5 giorni, facendo una quarantina di chilometri al giorno».

 

 

PARTENZA
Il rincalzo di 230 mila uomini è arrivato un anno dopo. «Ci hanno messo in mano un fucile modello 91, una baionetta e qualche vecchia mitragliatrice. E senza tanta preparazione siamo partiti, accompagnati alla stazione dalla fanfara, tra i saluti e i pianti dei nostri cari. Eravamo tutti commossi» dice ripensando a quei momenti Giovanni, nato in provincia di Enna nel 1921, partito con l’Armir.
L’ufficiale di artiglieria alpina Franco, milanese classe 1921, si avviò con tutt’altro spirito: «Per me, appassionato di scalate, la Russia era un sogno. Voleva dire avventura. Molti di noi erano spinti dalla voglia di crescere e di imparare. Poi eravamo galvanizzati dalla propaganda e dall’idea di una guerra lampo, di cui tanto vaneggiavano i tedeschi. Solo quando fui lì realizzai. Innanzitutto che non c’era motivo che noi andassimo a “rompere le scatole” ai russi. Si vedeva che era brava gente, gente come noi». Stesso impatto con il nemico anche per Giovanni Mirenda: «La cosa che mi ha colpito quando siamo giunti nella terra degli zar è stato il mesto sorriso dei russi e, ovunque, i segni della miseria provocata dalla guerra».

 

 

La disfatta

A dicembre le forze russe decisero una grande controffensiva e ruppero il fronte sul Medio Don. Gli unici a resistere, sull'Alto Don furono gli alpini. Tutto il resto delle truppe ripiegarono in ritirata. Finché non cedettero anche gli alpini. Poi l'ultima eroica battaglia di Nikolajevka in cui gli italiani ruppero l'ultimo blocco sovietico riuscendo a proseguire la ritirata. 

 

“TRIDENTINA” AVANTI!
Alle porte di Nikolajevka c’era anche Augusto Caliaro, alpino veneto, partito ventenne nel 1942 nella “Tridentina”, 6° Battaglione Verona: «Il nostro generale, Luigi Reverberi, ci incitò a entrare in città: quando l’abbiamo fatto non si potevano contare i morti. Ora come allora l’unica domanda che mi rimane in testa è: perché tanta carneficina?».
Anche Celeste ricorda l’irruzione della “Tridentina”: «Grazie a quella divisione, che era ancora equipaggiata e la più in forma, abbiamo sostenuto il combattimento a Nikolajevka e verso sera siamo potuti entrare in paese e soccorrere i feriti. Si sentivano le loro grida e i lamenti e poiché era già notte fonda li abbiamo ammassati nelle case. Ma la desolazione è stata enorme il mattino dopo: i molti feriti che non potevano camminare dovevano essere abbandonati e loro gridavano e chiamavano la mamma, la moglie e i figli, dicendo: “Non ci rivedremo più!”».

A PIEDI.
Rotto il blocco di Nikolajevka i soldati italiani continuarono la lunga marcia verso casa nella steppa innevata. «La mantellina che avevamo in dotazione si accorciava a vista d’occhio: ogni giorno ne tagliavo una striscia per rifare le fasce da mettere sulle gambe, sotto al ginocchio. Le scarpe le avevo buttate via quasi subito perché facevano entrare l’acqua e i piedi si gonfiavano. Così li ho avvolti in un pezzo di coperta e camminando in quel modo ho evitato di farli congelare» racconta Umberto, classe 1920, arrivato in Russia dalla provincia di Treviso come conducente di mulo nel 3° Reggimento di artiglieria da montagna della Divisione Julia.